Lo chiamano “il paese degli alti passi” oppure “piccolo Tibet” come vi avevo già raccontato QUI prima di partire: è il Ladakh, una regione dell’India del nord, politicamente parte dello stato di Jammu e Kashmir, stretta fra le catene dell’Himalaya e del Karakorum. Separato dal Tibet dai confini politici, il Ladakh condivide con esso aspetti morfologici, etnici e religiosi. Arrivando in aereo da Delhi, si atterra nella valle del capoluogo, Leh.
Il panorama è splendido: montagne appuntite e spoglie racchiudono la valle puntellata di case e pioppi verdi. A più di 3000 metri di altitudine non ci sono boschi e le valli sono piccole oasi: da sempre, dove scorre il fiume si concentra la vita e ogni vallata del Ladakh è un contrasto di colori. Al centro il verde dei campi e degli alberi, poi i colori delle montagne che vanno dal giallo ocra al viola intenso, poi il cielo azzurro, tutto illuminato da una luce chiara e fortissima, una luce che non ho mai visto, che ti abbraccia.

Leh è una città vivace e caotica per gli standard occidentali ma decisamente tranquilla per gli standard indiani. Dopo l’inferno di clacson e di mezzi di trasporto di ogni genere di Delhi, Leh con le sue macchine e le sue mucche è quasi rilassante. La via centrale, Main Bazaar, brulica di vita: turisti, monaci, negozianti, venditrici ambulanti di verdura, mucche, cani e asini in libertà.
Ovunque sventolano le lung ta, le bandierine di preghiere tipiche del buddhismo tibetano, in fondo al viale si erge la sagoma bianca della moschea e arroccati sul colle alle spalle della moschea ci sono il vecchio palazzo reale e il gompa, il monastero lamaista. Camminare per le strade di Leh mi è piaciuto particolarmente perché si può osservare in tutta calma diversi tipi di persone: turisti, musulmani dalle lunghe tuniche bianche, indiani sikh, i monaci con le loro toghe rosse, donne in abiti tradizionali, ragazzi vestiti all’occidentale, donne in sari.
Durante tutta la mia permanenza sono stata affascinata dai volti e dalla varietà di etnie che si possono incontrare qui: i ladakhi con gli occhi dolcemente a mandorla e la pelle ramata, i kashmiri alti e più chiari, con capelli scurissimi e occhi verdi, gli indiani con gli occhi neri. Nonostante il consiglio di fare con calma per le prime 24 ore in alta quota, decidiamo di fare una lunga passeggiata verso lo Shanti Stupa, attraverso il quartiere di Changspa.

Costellato di negozi di souvenir, ristoranti con giardino e modeste guest house, è sicuramente turistico e un po’ clichè ma meno affollato del centro. L’atmosfera giovane, rilassata e vagamente “hippie” che si respira è piacevole. Seduti fuori dai caffè o dai vari ‘bakery’ in stile un po’ occidentale si incontrano molti giovani occidentali dall’aria trasandatamente new-age che sembrano rispecchiare in pieno lo stereotipo di quelli che vanno in India per cercare sé stessi e l’esperienza mistica.
Inoltre, la maggior parte delle agenzie turistiche che propongono trek ed escursioni si concentra qui ed qui che è più facile incontrare altri viaggiatori solitari con cui fare amicizia. Fuori dalle agenzie si possono trovare i fogli colorati con gli annunci di chi cerca una quarta persona per riempire la macchina o dei partecipanti per raggiungere il numero giusto per il trekking. Basta entrare ed iscriversi.

I negozi di sciarpe e pashmine colorano i lati della strada e si alternano alle bancarelle di artigianato tibetano e a botteghe di prodotti cosmetici artigianali di buona qualità o che offrono servizi di lavanderia senza però avere alcuna lavatrice nel negozio. Sorge il dubbio che i panni vengano lavati nelle case private dei gestori: la cosa fa sorridere, ma anche questi “misteri” sono il bello dell’India. Arrivati ai piedi del colle dello Shanti Stupa, foto di gruppo e poi scalini.
Normalmente non sarebbe una salita difficile, ma siamo arrivati solo da poche ore e il fiatone non tarda a farsi sentire. Io sono particolarmente in difficoltà e ci impiego tantissimo tempo a salire ma alla fine ne vale la pena: la vista sulla valle è uno spettacolo e lo stupa candido stagliato contro il cielo azzurro è davvero splendido. Il primo impatto con il Ladakh non poteva essere migliore.
giorno 2 Khardung La, uno dei passi montani più alti del mondo, a 5539 metri sopra il livello del mare.
giorno monastero di Diskit e lago Pangong:
giorno tour dei monasteri.
Un paese immenso come l’India non è facile da approcciare. Ogni regione differisce dalle altre tanto che dire “vado in India” risulta decisamente troppo generico per chiunque abbia anche solo un minimo di conoscenza del paese. La mia meta è il Ladakh, una regione nell’estremo nord dell’India, chiamata anche “piccolo Tibet” per la vicinanza geografica con esso e la cultura che li accomuna. Il Ladakh, infatti, è una regione a maggioranza buddhista, molto isolata e tranquilla.
Nonostante politicamente appartenga allo stato di Jammu e Kashmir che, confinando con il Pakistan è da lungo tempo teatro di lotte e attentati. qui gli scontri non sono mai arrivati. Il buddhismo che vi si pratica è per lo più quello tibetano e infatti qui hanno trovato rifugio molti esiliati e profughi tibetani. Ho scelto questa regione perché sono affascinata dalla cultura buddhista e dai paesaggi naturali ed “estremi” che essa ospita. L’itinerario prevede tanti monasteri e piccoli villaggi, paesaggi montani dall’aspetto lunare e laghi in alta quota

Chi è già stato definisce il Ladakh un’esperienza mistica e unica per alcuni aspetti. Io spero di sperimentare di persona l’immenso e il minuscolo, le montagne altissime e i piccoli villaggi, spero di trovare la dimensione umana e le cose che contano, “sovrumani silenzi e profondissima quiete”, chissà che magari non riesca a sovvenirmi “l’eterno, le morte stagioni, e la presente e viva e il suon di lei”. L’ermo colle, in fondo, è ovunque si abbia voglia di cercarlo, e me lo vedo Leopardi a zonzo per l’Himalaya.
Per me sarà la prima volta in India, quindi la prima cosa che ho deciso di fare per prepararmi a questo viaggio è stata “calmarmi” e fare appello a tutta la serenità pre-partenza di cui sono capace. Poi ho letto guide e siti internet, ma mi rendo conto che niente può preparare davvero all’impatto con l’India, nemmeno ore di letture o film Bollywood style; questa è l’unica cosa su cui quasi tutti i viaggiatori che ho avuto modo di leggere e consultare sono d’accordo.

Quindi, raccolta un po’ di orientale seraficità e rimesso in gabbia lo spirito delle Grandi Aspettative, la seconda cosa da fare è chiedere il visto. Se si ha tempo e modo, portarlo direttamente al consolato indiano (a Roma o Milano) è comodo, veloce ed economico, altrimenti ci sono moltissime agenzie affiliate che prendono in carico la pratica via posta e la sbrigano per voi, ovviamente a pagamento. Richiedere il visto è un poco macchinoso ma non troppo complicato. Il sito del consolato e delle agenzie forniscono informazioni dettagliate.
Bisogna compilare un modulo online tramite un portale internet apposito, inserire la scansione della fototessera, stamparlo e portarlo firmato al consolato o spedirlo in agenzia con il passaporto. Procurati i visti, ci sono le vaccinazioni da fare secondo coscienza. Dal momento che buona parte dell’itinerario si sviluppa in luoghi poco abitati, sono andata dal mio medico per farmi fare le ricette per una serie di farmaci che potrebbero servire, la classica “mini-farmacia” portatile, come consigliano anche le ASL.

Risolte le questioni sanitarie, passo all’attrezzatura. Mi piace viaggiare con lo zaino, che in questo caso cercherò di lasciare leggero, portando pochi vestiti selezionati con cura, qualcosa per tutte le stagioni, dal momento che il clima si preannuncia mutevole. Magliette a maniche corte, jeans o pantaloni da trekking ma anche un pile, intimo caldo e calzettoni. Ho anche preso un sacco a pelo caldo per le sere in cui si dormirà nei campi tendati ad altitudini considerevoli.
Saranno utili salviette umide, una torcia, un paio di lucchetti, un marsupio o una tracolla sottile per tenere vicini soldi e documenti, del sapone da bucato e qualche molletta. Come e quando laveremo i vestiti è un’incognita divertente, così come altre questioni tecniche che sarà divertente “risolvere” al momento con un po’ di quella seraficità di cui sopra… volesse anche dire stenderli in mezzo agli yak e sorprenderli al mattino a ruminare qualche mutanda
Per le foto si ringraziano Guido Landra e Paolo Rucci
Il lago Pangong: a un passo dal cielo
A 4250 metri sul livello del mare, nel cuore dell’Himalaya fra Cina (Tibet) e India, si trova un angolo di paradiso: il lago Pangong. Il Pangong è un lago salato, lungo 130 kilometri, che si snoda fra le montagne e offre dei panorami mozzafiato e una grande pace. Si arriva in macchina, passando su strade per lo più sterrate che si inerpicano sui fianchi pietrosi delle montagne.
Per raggiungere il lago la strada attraversa il valico Chang La, a 5.360 metri. I passi di montagna in Ladakh spesso ospitano dei presidi militari e qualche minimo servizio: una minuscola locanda dove è possibile rifocillarsi se si riesce a resistere alla puzza di benzina dell’immancabile generatore, delle toilette più o meno spaventose, un tempio induista o dedicato a più religioni insieme.

Il tempio induista del Chang La è molto grazioso e colpisce l’attenzione per via della scalinata di accesso che è completamente decorata di file di bandiere buddhiste e di campanelle lungo il corrimano centrale. La tradizione buddhista vuole che il potere delle divinità sia particolarmente forte sui passi di montagna, ed è perciò di particolare auspicio lasciare le bandiere in questi posti.
Gli induisti invece suonano una campana prima di accostarsi alla divinità, come richiamo. Questa convivenza di spiritualità diverse è diffusa in tutta la regione.
Quando arriviamo al lago il cielo è un po’ nuvoloso e tinge l’acqua di toni cupi. Il panorama è comunque bellissimo: l’acqua è limpida e ovviamente gelida. Scendiamo alla spiaggia di ghiaia sottile per fare qualche prima foto.

C’è una calma incredibile. Ritorniamo alle macchine e costeggiamo il lago verso il campeggio dove passeremo la notte. Il tramonto regala alle montagne dei riflessi dorati. Scesa la notte, la Via Lattea e diverse stelle cadenti danno spettacolo in tutta la loro intensità. Non c’è inquinamento luminoso in Ladakh, e ogni notte è un’emozione di stelle, anche nelle città più grandi.
Al mattino il cielo è sereno, la luce è forte e il lago si presenta in tutta la sua bellezza.
Camminando lungo la riva per qualche kilometro si possono sentire la forza e la dolcezza di un paesaggio naturale ancora incontaminato. L’acqua è di tutte le tinte di azzurro, le montagne intorno la separano dal cielo, di un azzurro altrettanto intenso.

La luce bianca, il calore e le poche nuvole regalano una sensazione di allegria e di pace. A parte le nostre risa, nessun rumore. Dove il lago si è ritirato, ci sono piccoli stagni in cui si riflettono le montagne e in cui si possono intravedere dei minuscoli pesciolini. Intorno ai sassi qualche lucertolina si scalda al sole e scappa alla nostra vista. Gli scarponcini affondano ogni tanto nella terra bagnata della riva, a tratti asciutta e sabbiosa, a tratti acquitrinosa.
Le nostre risa si perdono nell’aria. Non si lascia niente al lago Pangong, se non forse qualche impronta, destinata a sparire, mentre si cammina lungo la riva con il cuore sempre più leggero.Con la sua bellezza luminosa, il Pangong mi ha lasciato la sensazione ancora vivida di essere veramente stata nel luogo più vicino al paradiso così come io lo concepisco.
Tutto merito di quella luce e di quel cielo blu.
di Selena Magni
Che bello, viene voglia di andarci subito 🙂
Grazie mille tesora! =) Tutti dovrebbero andare! Merita un sacco! =P