Julio Cortàzar: il rapporto tra fotografia e scrittura

La luce della fotografia è ciò che disegna la realtà. In effetti, l’etimologia stessa della parola, derivante dal greco fos (luce) e grafein (scrivere), lascia intendere chiaramente l’importanza che ha quest’elemento nell’arte fotografica e, soprattutto, mostra l’esistenza di un rapporto tra fotografia e scrittura preesistente, tema molto caro a Julio Cortàzar. Del resto l’obiettivo della fotografia è quello di catturare un momento, di immortalarlo nel tempo creando un’intensa relazione tra passato, presente e futuro, in rapporto all’esperienza che intende raccontare.

Secondo Barthes la fotografia stabilisce un legame tra l’immagine e l’oggetto, che possiamo sintetizzare in una sorta di memento mori: si cerca, dunque, di mostrare attraverso i limiti fisici di un’immagine che qualcosa di reale era là nel momento in cui è stato fotografato. E’ l’hic et nunc, un qui e ora o, meglio, un è stato che ora non è più, ma che è vicino alla conoscenza del presente (leggi anche “Il Politecnico di Vittorini: scrittura e fotografia a confronto“). Sulla base di questi concetti possiamo capire ed interpretare la passione per la scrittura e la fotografia di Julio Cortàzar.

Nel suo universo variegato le due vengono abilmente collegate dalla bravura direttiva del regista Michelangelo Antonioni nella sua opera cinematografica del 1966 “Blow Up”. Ma su cosa si fonda il rapporto tra fotografia e scrittura? Basta pensare al racconto, ad esempio, che, rispetto al romanzo, parte dalla nozione di limite, un limite di sicuro fisico in quanto si costituisce di un numero di pagine estremamente ridotto, oltre il quale non si tratta più di racconto. ma di nouvelle o di romanzo.

Dunque, nulla di più facile capire che anche la fotografia, come il racconto. ha il limite dettato dallo scatto con il quale si va ad imprime nei confini fisici di un’immagine, cartacea o digitale,  un momento, una storia, la realtà di ciò che è stato e in un certo senso è ancora (in “Arco Rovescio” di Giulio Marzaioli, fotografia e scrittura si compenetrano). Il racconto deve avere una capacità di sintesi, non perdersi in descrizioni superflue, andare subito al sodo.

Deve, dunque, raccontare il fatto senza tregua sin dalle prime pagine e lasciare che sia la fantasia del lettore ad immaginare alcune peculiarità dell’ambiente in cui si muovono i personaggi, nonché alcuni dettagli su cui per forza di cose lo scrittore non può soffermarsi. Così la fotografia si comporta nei confronti di chi la osserva e il fotografo, dal suo canto, sarà costretto a dover fare delle scelte riuscendo a ritagliare abilmente la realtà, affinché quel frammento funzioni come un’esplosione che si apre ad una nuova e più ampia

Il tempo e lo spazio del racconto e della fotografia devono essere come condensati, sottomessi a una grande pressione spirituale e formale per provocare quell’apertura verso ciò che non ritroviamo nell’opera finale, ma che effettivamente c’era (leggi anche “Brian Dettmer: un chirurgo di parole e immagini”). Proprio Julio Cortàzar in uno dei brani contenuti all’interno del saggio “Algunos aspectos de los cuentos” (1970) ci parla del racconto, del suo ritmo incalzante, dei suoi limiti e degli effetti che hanno sul lettore:

(…) Ogni volta che ho dovuto rivedere la traduzione di uno dei miei racconti (o tentare quella di altri autori, come mi è successo con Poe), ho percepito fino a che punto l’efficacia e il senso del racconto dipendano da quei valori che danno il suo carattere specifico alla poesia e persino al jazz; la tensione, il ritmo, la pulsazione interna, l’imprevisto all’interno di parametri previsti, questa libertà fatale che non ammette alterazioni senza una perdita irreparabile. I racconti di questa specie si incorporano come cicatrici indelebili a ogni lettore che li meriti: sono creature viventi, organismi completi, cicli chiusi e respirano (…)

Dunque, due passioni che si mescolano come accade a Michael, protagonista dell’opera di Antonioni, che fa della fotografia la sua reale malattia, dalla quale non riesce a guarire e che lo porta a dover creare dei continui ingrandimenti o blow up per cercare di immortalare e di offrire quanti più dettagli possibili di una realtà che è stata e ora non è più. Vittima di una vera e propria ossessione che lo porta a perdersi in quella ragnatela che lo stesso Cortàzar definisce “bave del diavolo”, capace di intrappolare lo scrittore tanto quanto il fotografo.